giovedì, dicembre 07, 2006

Disobbedienza.


"Diversamente da ogni altro caso, la disobbedienza ai genitori o al sovrano che proibiscono di praticare il Sutra del Loto è in realtà un atto di pietà filiale verso i genitori e si accorda con le preghiere del sovrano per la pace."
(Da: Gli scritti di Nichiren Daishonin, "Lettera a Jibu-bo", volume 9, pag. 223, ed. Esperia)

Credo che questa frase possa essere meglio compresa chiarendo cosa significa "pratica del Sutra del Loto". Da un punto di vista superficiale si allude all'insegnamento del Buddha Shakyamuni e alla sua osservanza, alla relativa pratica - quale, per esempio, quella sviluppata dal Maestro cinese Tien T'ai, che consiste in una serie di esercizi di meditazione. Più profondamente possiamo pensare che praticare il Sutra significhi recitare Gongyo e Daimoku, e sicuramente Nichiren intendeva questo, essendo Nam Myoho Renge Kyo il fulcro della sua dottrina e del suo insegnamento. Tuttavia credo che Nichiren volesse indicare soprattutto che la pratica in questione equivale a seguire la nostra vera natura, il nostro Sé, la nostra innata buddità, l'illuminazione che abbiamo dentro.
Se i nostri genitori, i maestri, oppure lo Stato nel quale viviamo (indicato nella frase citata dal "sovrano") ci impediscono di seguire noi stessi, la nostra natura profonda, allora - dice Nichiren - e solo allora siamo legittimati alla disobbedienza. Anzi, questa disobbedienza rappresenta una forma di obbedienza più alta e importante che una mera osservanza formale, perchè ha in sé il rispetto per una Legge più grande, universale. La pratica del Sutra del Loto, infatti, implica non soltanto l'adesione alle richieste del nostro vero io, ma anche l'armonia con gli altri, con l'ambiente, con la vita stessa. Questa armonia, poi, è proprio lo specchio, la cartina di tornasole per comprendere che pratichiamo nella giusta maniera e che, credendo di seguire la nostra vera natura, non ci stiamo invece impegnando in qualche modalità illusoria. In realtà non possiamo mai essere certi di "praticare il Sutra del Loto" correttamente una volta per tutte: è necessaria una continua attenzione, una vigilanza, una capacità di mettersi in discussione continuamente. La giusta pratica, in definitiva, consiste nel non adagiarsi mai su nessuna forma di sicurezza, su nessuna forma di autorità - sia nostra che altrui, ma essere sempre pronti a cambiare in piena consapevolezza e libertà.

mercoledì, novembre 15, 2006

Sulle preghiere.


"Può accadere che uno miri alla terra e manchi il bersaglio, che qualcuno riesca a legare i cieli, che le maree cessino di fluire e rifluire o che il sole sorga ad ovest, ma non accadrà mai che la preghiera di un devoto del Sutra del Loto rimanga senza risposta."
Dal Gosho: "Sulle preghiere" (Gli scritti di Nichiren Daishonin, vol. 9,pag.182-3 - Esperia)
La locuzione "devoto del Sutra del Loto" indica, in questo contesto, un seguace del buddismo insegnato da Nichiren Daishonin - e questo è il senso evidente, ma anche il più letterale e di superficie. Per andare più a fondo è necessario specificare che nella Tradizione orientale - e non solo - il Loto è un simbolo (inteso come percezione concreta di una realtà, di un ente che travalica i comuni termini concettuali) del Cosmo, dell'Ordine Universale e della Legge di Causa ed Effetto. "Sutra", oltre ad indicare un Testo o un insegnamento sapienziale del Budda, ha in sè il significato etimologico di "ordito, trama, intessitura". Il termine giapponese "Kyo" con il quale viene tradotto il sanscrito "Sutra" vuole anche indicare il suono. Ricordiamo ancora una volta come nella Tradizione il "suono" (sanscrito Shabda) sia sinonimo di Logos, di energia o idea creatrice alla base della manifestazione universale. "Sutra del Loto" dunque, tenendo presenti i significati esposti, allude al Cosmo e all'intenzione primaria che lo sostiene, alla Vera Entità, alla Legge Universale, all'Ente Supremo. Il devoto del Sutra del Loto, dunque, può dirsi un Iniziato, un Risvegliato o, in altre parole, un individuo dedito all'approfondimento dell'autoconsapevolezza, che percepisce la profonda unità che esiste fra lui stesso come individualità, gli altri esseri e la Vita, il Tutto.
La frase di Nichiren, secondo la mia interpretazione, vorrebbe esprimere questo: l'individuo sulla Via di Mezzo fonda il suo viaggio sulla Legge che va oltre le apparenze e basa la sua meditazione su di essa; ogni manifestazione universale non è che un fenomeno secondario rispetto a questa Legge, a questa Vera Entità. Per questo motivo i fenomeni possono cambiare e stravolgersi, possono essere imprevedibili o impermanenti, ma il legame con il Sè - ormai instauratosi nella pratica del "devoto del Sutra del Loto" - rimane immutabile, nulla può distruggerlo, perché si tratta del prodotto di una crescita coscienziale, di una evoluzione. La "preghiera" del devoto, inoltre, non essendo per ciò stesso vincolata al mondo delle apparenze, essendo una richiesta dotata di integrità e di apertura interiore, non può rimanere senza una risonanza profonda, non può non ricevere una risposta: il legame con l'Assoluto, alla base del concetto stesso di religio, non è mai a senso unico, perché quando l'individuo si volge sinceramente al Tutto, contemporaneamente il Tutto viene incontro all'individuo, come accade in uno specchio - lo specchio del Sè, del Vero Io.

mercoledì, febbraio 15, 2006

Percepire la propria mente.


"Quindi, quando invochi la Legge e reciti il Sutra del Loto, devi essere profondamente convinto che Myoho-renge-kyo è la tua stessa vita. Non cercare mai nessuno degli ottantamila insegnamenti di Shakyamuni e nessuno dei Budda e bodhisattva delle tre esistenze e delle dieci direzioni al di fuori della tua mente. La padronanza degli insegnamenti buddisti non ti solleverà affatto dalle sofferenze di nascita e morte fino a che non percepirai la natura della tua vita. Se cerchi l'Illuminazione al di fuori della tua mente, qualsiasi disciplina o buona azione sarà priva di significato. Per esempio, un povero non potrà guadagnare un centesimo contando le ricchezze del suo vicino, anche se lo fa continuamente giorno e notte. Miao-lo afferma: "Se non si percepisce la natura della propria mente, non si può sradicare il cattivo karma". Questo significa che finché non percepisci la natura della tua mente, la tua pratica sarà un'infinita e dolorosa austerità."
Da "Il raggiungimento della Buddità in questa esistenza" (gli scritti di Nichiren Daishonin, vol. 4, pag. 4)
In questa forma di buddismo ognuno di noi praticanti talvolta attinge dallo studio del Gosho un pensiero, una frase che risulta particolarmente stimolante e significativa, traendo da essa sostegno e incoraggiamento per la pratica introspettiva o per fronteggiare particolari momenti della vita. Naturalmente, ripeto, ognuno trova le sue frasi, le sue sollecitazioni, e non è detto che quelle di un altro abbiano su di noi lo stesso effetto. Personalmente è da questo Gosho citato che spesso traggo ispirazione. Mi colpisce che vi si asserisca con chiarezza come non necessariamente la pratica risulti corretta se rimane un fatto formale, esteriore, oppure se crediamo che l'Illuminazione che vogliamo raggiungere venga da qualche parte al di fuori di noi. Gli insegnamenti, le buone azioni, restano privi di significato se non si ingenera dentro di noi quella rivoluzione che soltanto una visione introspettiva indipendente può favorire. Ho notato che man mano che si procede sulla "Via di Mezzo", cioè man mano che passano gli anni continuando a praticare il buddismo con una certa serietà e passione, avvengono dei mutamenti, dei cambiamenti di prospettiva: quello che era valido ieri, ciò che credevamo, le cose su cui basavamo, perdono gradualmente di importanza o di senso. Però non si tratta di assenza di significato: si aprono prospettive più ampie e profonde, mentre quello su cui fondavamo prima - anche se sotto certi aspetti corretto - risulta un poco più esteriore e superficiale di quanto pensassimo, diventa quasi una sovrastruttura. Per esempio, recitando Gongyo e Daimoku, dopo alcuni mesi o anni si entra in una situazione ripetitiva che può presentare i caratteri dell'aridità, della noia. Mentre inizialmente il sapore della novità, la gioia di sperimentare, davano sapore e freschezza alla pratica, ora prevale la pesantezza di un gesto ripetitivo. A parte il fatto che questo stato ci dà l'occasione di osservarci per come siamo - senza particolari fattori che nascondano i nostri sentimenti meno esaltanti - abbiamo in esso anche un'altra grande opportunità: quella di approfondire, di raffinare il nostro approccio, di renderlo più comprensivo, aperto, intelligente, consapevole. Conoscendo i nostri limiti possiamo aprirci al nuovo, ma non necessariamente inventandoci una novità: possiamo anche rimanere esattamente dove siamo, agendo nello stesso modo, e tuttavia cercare un mutamento che non sia formale, ma interiore, una "percezione della natura della propria mente". Secondo me questo è ciò cui soprattutto, arrivati a quel punto, dobbiamo mirare mentre recitiamo davanti al Gohonzon.