mercoledì, febbraio 15, 2006

Percepire la propria mente.


"Quindi, quando invochi la Legge e reciti il Sutra del Loto, devi essere profondamente convinto che Myoho-renge-kyo è la tua stessa vita. Non cercare mai nessuno degli ottantamila insegnamenti di Shakyamuni e nessuno dei Budda e bodhisattva delle tre esistenze e delle dieci direzioni al di fuori della tua mente. La padronanza degli insegnamenti buddisti non ti solleverà affatto dalle sofferenze di nascita e morte fino a che non percepirai la natura della tua vita. Se cerchi l'Illuminazione al di fuori della tua mente, qualsiasi disciplina o buona azione sarà priva di significato. Per esempio, un povero non potrà guadagnare un centesimo contando le ricchezze del suo vicino, anche se lo fa continuamente giorno e notte. Miao-lo afferma: "Se non si percepisce la natura della propria mente, non si può sradicare il cattivo karma". Questo significa che finché non percepisci la natura della tua mente, la tua pratica sarà un'infinita e dolorosa austerità."
Da "Il raggiungimento della Buddità in questa esistenza" (gli scritti di Nichiren Daishonin, vol. 4, pag. 4)
In questa forma di buddismo ognuno di noi praticanti talvolta attinge dallo studio del Gosho un pensiero, una frase che risulta particolarmente stimolante e significativa, traendo da essa sostegno e incoraggiamento per la pratica introspettiva o per fronteggiare particolari momenti della vita. Naturalmente, ripeto, ognuno trova le sue frasi, le sue sollecitazioni, e non è detto che quelle di un altro abbiano su di noi lo stesso effetto. Personalmente è da questo Gosho citato che spesso traggo ispirazione. Mi colpisce che vi si asserisca con chiarezza come non necessariamente la pratica risulti corretta se rimane un fatto formale, esteriore, oppure se crediamo che l'Illuminazione che vogliamo raggiungere venga da qualche parte al di fuori di noi. Gli insegnamenti, le buone azioni, restano privi di significato se non si ingenera dentro di noi quella rivoluzione che soltanto una visione introspettiva indipendente può favorire. Ho notato che man mano che si procede sulla "Via di Mezzo", cioè man mano che passano gli anni continuando a praticare il buddismo con una certa serietà e passione, avvengono dei mutamenti, dei cambiamenti di prospettiva: quello che era valido ieri, ciò che credevamo, le cose su cui basavamo, perdono gradualmente di importanza o di senso. Però non si tratta di assenza di significato: si aprono prospettive più ampie e profonde, mentre quello su cui fondavamo prima - anche se sotto certi aspetti corretto - risulta un poco più esteriore e superficiale di quanto pensassimo, diventa quasi una sovrastruttura. Per esempio, recitando Gongyo e Daimoku, dopo alcuni mesi o anni si entra in una situazione ripetitiva che può presentare i caratteri dell'aridità, della noia. Mentre inizialmente il sapore della novità, la gioia di sperimentare, davano sapore e freschezza alla pratica, ora prevale la pesantezza di un gesto ripetitivo. A parte il fatto che questo stato ci dà l'occasione di osservarci per come siamo - senza particolari fattori che nascondano i nostri sentimenti meno esaltanti - abbiamo in esso anche un'altra grande opportunità: quella di approfondire, di raffinare il nostro approccio, di renderlo più comprensivo, aperto, intelligente, consapevole. Conoscendo i nostri limiti possiamo aprirci al nuovo, ma non necessariamente inventandoci una novità: possiamo anche rimanere esattamente dove siamo, agendo nello stesso modo, e tuttavia cercare un mutamento che non sia formale, ma interiore, una "percezione della natura della propria mente". Secondo me questo è ciò cui soprattutto, arrivati a quel punto, dobbiamo mirare mentre recitiamo davanti al Gohonzon.